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Corporativismo e pluralismo – Schmitter e Matteucci 6 settembre 2011

Filed under: Uncategorized — Marco Maffioletti @ 12 h 31 min
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LEGGI GLI APPUNTI SU Schmitter, Philippe – Corporativismo-corporatismo e Matteucci, Nicola – Pluralismo

 

Corporatismo e pluralismo sono teorie politiche fino a un certo punto interscambiabili. Si potrebbe leggere gli articoli di Matteucci e Schmitter (in Enciclopedia Treccani delle Scienze Sociali) in parallelo, credendo che parlino entrambi di uno stesso sistema di articolazione tra Stato e società, almeno finché entrambi non fanno riferimento alla teoria «rivale».

 

 

 

Corporatismo e pluralismo: punti comuni

 

Riduzione del potere monopolistico dello Stato e ricomposizione della società individualistica tramite una valorizzazione dei «corpi intermedi» (associazioni culturali, economico-professionali, politiche, ecc.) «estranei» o collaterali all’apparato e all’amministrazione centrale o periferica dello Stato.

 

 

 

Corporatismo e pluralismo: punti contrapposti

 

Schmitter mette in luce le differenze in modo analitico ma senza dilungarsi poi troppo sugli aspetti del corporatismo criticati dai pluralisti, proprio ciò che Matteucci sottolinea rapidamente, mostrando la propria preferenza per il pluralismo: «una concentrazione di potere, che contrasta con il pluralismo degli interessi e che preclude ad ‘estranei’ l’accesso al tavolo privato delle decisioni. […] I pluralisti sostengono un centro debole e una periferia forte, i neocorporativi un centro forte e una periferia debole».

 

Se a favore del corporatismo Schmitter può fornire un solo dato oggettivo (statistico): la maggiore pace sociale nei paesi neocorporativi, e Matteucci conclude scrivendo «che solo un regime autoritario può garantire la pace sociale», è chiare dove quest’ultimo vuole andare a parare: il (neo)corporati(vi)smo è una forma di governo degli interessi fortemente razionalizzatrice, modernizzatrice, che aumenta il numero degli attori nei processi di formazione delle decisioni, imposte però anche a quei gruppi che non vi partecipano e non hanno un’effettiva rappresentanza. È lo stesso rischio della democrazia mostrato da Tocqueville: la prevaricazione non democratica della maggioranza sulle minoranze. Da sottolineare che, riferendoci alla tabella di Schmitter, sotto «corporatismo» troviamo, da un lato, ”unità”, ”differenziato”, ”coordinamento”, ”gerarchico”, ”strutturata”, ”stabili” – tutti termini che richiamano appunto all’ ”organizzazione” razionale della società – e dall’altro ”monopolistiche”, ”non volontaria”, ”indottrinamento”, ”autorità”, ”sanzioni” – parole che fanno pensare alla limitazione centralizzata delle libertà.

 

Così, sembrerebbe che il corporatismo risulti essere un’organizzazione funzionale alla crescita economica, ma il cui scopo non è lo sviluppo della democrazia, delle libertà e della persona individuale. Eppure, Schmitter ci mette in guardia: «Le relazioni spontanee, volontaristiche ed episodiche esistenti nei regimi pluralistici sembrano più libere in linea di principio, ma nella pratica determinano una maggiore ineguaglianza di accesso al processo decisionale. I gruppi privilegiati, numericamente limitati, più compatti e dotati di risorse concentrate, sono per natura avvantaggiati rispetto ai gruppi più vasti e dispersi quali i lavoratori e i consumatori. Il corporatismo tende a rendere più omogenea la distribuzione delle risorse tra le categorie meglio organizzate e a garantire quantomeno una parità formale di accesso al processo decisionale.». Come dire: uno sparuto gruppo di finanzieri della City capace di mobilitare grandi somme di danaro, di influenzare o imporre alcune scelte politiche, di dirigere l’opinione pubblica, ha molto più potere di milioni di lavoratori finché i due gruppi di interessi non vengono riconosciuti come unità che, forzando certo le specificità di ogni membro in un’interpretazione generale del bene comune, discutono e patteggiano le decisioni economiche, politiche, sociali. Inoltre, Schmitter conclude prevedendo un futuro di mesocorporatismi, locali e specialistici, dove in qualche modo verrebbe recuperata una certa rappresentanza degli interessi minori, frammentari – che è proprio quanto i pluralisti sentono mancare nella teoria neocorporativa.

 

Riteniamo quindi che corporatismo e pluralismo tendano entrambi alla rappresentanza di tutti gli interessi, ma tramite percorsi sostanzialmente differenti. Mantenendo un atteggiamento pragmatico e razionalista di fronte alla complessità della società – che sarebbe controproducente riprodurre/imitare nella politica – il corporatismo la ridurrebbe a uno schema semplificato, a due macro-soggetti (lavoratori e datori di lavoro), arricchiti poi da gruppi più specifici (operai specializzati nel vetro, impiegati nella meccanica torinese, ecc.). Il pluralismo, invece, esprimerebbe il principio della giusta libertà per tutti gli individui e per tutti i gruppi, premettendo la necessità di rispettarlo a costo anche di una minore funzionalità nell’immediato. Il primo è tentato a dominare il caos, il secondo a controllarlo e, se è possibile, a rappresentarlo.


 

 

 

 

 

 

 

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